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Giorgio Celiberti, ovvero le radiografie degli affettintimento della terra, esprn era così. Mancava ancora qualcosa: l’individuazione del seme formativo della sua sensibilità. Ciò che avrei potuto fare di lì a poco. Infatti, saputo che non ero mai stato a Cividale, luogo che avevo imparato ad amare sui libri d’arte medievale

Si vuol far iniziare la maturazione dell’arte di Giorgio Celiberti dallo shock da lui subito durante la visita di Terezin, carcere napoleonico di Maria Teresa, sito presso Praga e dai nazisti riutilizzato per internarvi i bambini ebrei. Le poesie ed i disegni tracciati sui muri da queste piccole vittime dell’odio nazista hanno colpito a tal punto l’animo dell’artista udinese, che dalla metà degli anni Sessanta il suo lessico o, se si preferisce, il suo alfabeto pittorico, s’è permeato di quei segni, facendo viaggiare la sua immaginazione nelle ore drammatiche, e tuttavia colme di speranze (secondo la naturale spinta ottimistica propria dell’infanzia), di quei bambini. Sono nate così quelle piccole opere in cui il segno e il graffio sull’”intonaco” della tela si facevano condensati di un vissuto, dove ricordo ed emozione, dramma e disponibilità alla vita, sangue e poesia si coniugavano nelle morfologie di pochi elementi insistiti (le X, che servivano ai bambini per il conteggio dei giorni e delle settimane di prigionia; i cuoricini elementari ideogrammi della speranza di vita e di amore; le lettere T, Z, N, riferite al luogo, nonché macchie nere e sbavature di rosso) a dichiarare e insieme restituire, nelle loro esibizioni talora aggrovigliate e nelle sensibili movimentazioni delle superfici, i sussulti dell’animo dell’artista contagiato dai terremoti intimi che sconvolsero quei bambini, vittime innocenti ( e ancor più innocenti dei loro genitori e parenti adulti) dell’Olocausto.
La visita al carcere di Terezin ha significato per Celiberti un appuntamento col destino, col suo destino di artista, rivelandogli appieno la sua vera natura con un’improvvisa illuminazione della coscienza che può essere accostata a quella determinata dalla voce che sulla strada di Damasco fece convertire il centurione romano Saul nel cristiano Paolo.
Dalla metà degli anni Sessanta, insomma, Celiberti si è conosciuto, o meglio si è ri-conosciuto.
Certo, la visita di Terezin gli è servita, ma solo come una scorciatoia per giungere al traguardo della sua fisionomia di artista. In somma Terezin ha avuto solo una funzione maieutica, importante, risolutrice, ma niente più, perché le voci dei bambini ebrei del carcere cecoslovacco Celiberti le aveva tutte dentro di sé. Non si diventa ciò che non si è già. Nel divenire un altro da quello che si era, non si fa che riaggallare ciò che era incapsulato nel profondo dell’io. La “voce” di Cristo che Saul sentì sulla strada di Damasco era la sua “voce di dentro”, era il suo sentimento già maturo a far mutare pelle e vita al centurione romano. Parimenti, Celiberti non avrebbe compreso le voci dei piccoli di Terezin, né avrebbe avuto agnizione della fondamentale importanza di esse per lui, se non fossero state le sue voci, cioè le voci che erano da sempre sedimentate nel suo profondo e che già premevano per trovare la via che le facesse venire alla luce.
Si ripercorra la storia pre-Terezin di Celiberti e ci si avvedrà che i segni già costituivano il suo bagaglio lessicale e che già allora egli era impegnato a dar sbocchi lirici al segno. Tra gli anni cinquanta e Sessanta, quando Celiberti era a Roma, ebbi più volte occasione di vedere sue opere in gallerie e già allora mi colpì la perentorietà del suo segno, la sua forte natura grafica che sapeva tramutarsi naturalmente in pittura. Tali opere, per lo più bianco-nere, erano già grondanti di ombre e di umori del dramma di vivere. Ciò mi fece venire il desiderio di incontrarlo, cosa che tuttavia non si realizzò. Ora, a distanza di tanto tempo, io non trovo contraddizione tra le opere di oggi e quelle che ebbi modo di vedere a Roma, anche se il senso tragico dell’esistenza allora era reso con segni più marcati e con atmosfere più cupe e severe, frutto di un espressionismo, che, ancora memore del post-cubismo di Guttuso, artista da lui frequentato nel periodo romano, si nutriva delle rotture impulsive assorbite dal temperamento anarcoide di Vedova, del quale il nostro, allorché era studente a Venezia, amava frequentare l’atelier. Quel che allora doveva esser meglio registrato (poiché non era affatto assente) era l’afflatto poetico, afflatto che senza dubbio è componente congenita alla sua natura e che costituì il cemento forte della sua amicizia fraterna con il tormentato e sfortunato Tancredi, altro artista di forte afflatto poetico ( e segnico, per giunta, oltreché tachiste), con cui al tempo degli studi veneziani Celiberti divise una stanza. E credo sarebbe estremamente utile un giorno mettere a confronto la pittura dei due con una mostra apposita.
Insomma, la storia artistica di Celiberti non facit saltus. E non solo perché ogni artista, come da tempo vado sostenendo, non fa che ripetere, mutatis mutandis, la stessa opera per tutta la vita; ma anche perché in Celiberti forte è quella pulsione propria a tutti gli artisti ( e non solo a loro), dico la coazione a ripetere, per cui, una volta definitasi nei modi, nei significati e nei meccanismi espressivi, l’irruzione di essa s’è fatto letto del fiume del suo discorso artistico.
È chiaro, allora, che l’impatto coi muri graffiti, scritti e marcati del carcere di Terezin, non costituì affatto un saltus, né una svolta del discorso artistico di Celiberti. Esso in verità fu il rendez-vous fatale e predestinato per il naturale sviluppo espressivo ( e stavo per dire per il naturale corso del fiume della creatività), già segnato. Cioè, esso costituì uno di quegli appuntamenti che l’Essere misteriosamente predispone per liberare le energie imprigionate nei recessi dell’io e farle zampillare fuori.
Se così non fosse, l’evento della visita al carcere di Terezin avrebbe significato nient’altro che un’emozione momentanea, coinvolgente e pregnante quanto si vuole, ma destinata presto a lasciare il campo ad altri eventi ed esperienze. Invece Terezin ha continuato a risuonare nell’animo di Celiberti senza sosta. Appunto come un appuntamento col destino. Lo stesso artista, in un’intervista rilasciata nel 1980 ad Alcide Paolini, della visita a Terezin sottolineava tale valenza: “Ci torno tanto spesso con la memoria. Devo dire anzi che quello fu il momento più drammatico e risolutivo della mia storia di pittore: prima dipingevo nature morte, animali, interni-esterni in un modo più o meno astratto, c’è chi disse che ero nell’orbita della pittura “astratta-concreta” e chi, in quella dell’informale; in ogni modo verso il 1960 dipingevo, si può dire, ancora con una lontanissima nostalgia del plein air, e se Emilio Vedova, col quale ho vissuto a Venezia tutta la mia adolescenza di artista, mi è stato maestro nel cammino di ricognizione delle avanguardie, sono restato un patito per l’immagine sensibile. Poi andando avanti, mi sono imbattuto in quei muri, in quelle tragiche finestre, in quei cuori rossi e bianchi, in quelle cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri. Ma è inutile che racconti qui un’altra volta, quanto hanno saputo così bene dire di me i critici in quel momento, fra cui Marziano Bernardi e Marcello Venturoli. Ciò che posso aggiungere, come un’ ”autobiografia”, è che da quel momento io ho vissuto tutta la mia pittura per segni e testimonianze, come qualcosa che meritasse di essere riferito, perché già avevo operato una fatica per vivere e sopravvivere”.
In definitiva Celiberti nei segni dei bambini di Terezin ha colto la vita nella morte. E sta tutto qui il senso del suo discorso, dove i cuoricini nell’infantile speranza della libertà si fanno farfalle e traspongono il loro battito in battiti di ali; dove le X sono, sì simboli delle singole crocefissioni dei piccoli prigionieri e della loro quotidiana moltiplicazione, ma sono anche una sorta di raggi X attraverso cui attuare le radiografie degli effetti ingenui e gentili di un’epoca maledetta dall’odio razziale.
Uomo dalle profonde risonanze ancestrali, Celiberti è riuscito a caricare i segni di vita-morte visti sui muri del carcere cecoslovacco di sonorità semantiche ricche e sempre nuove. Ecco perché nel suo insistere sugli stessi morfemi Celiberti non conosce mai una caduta.Ogni suo quadro è un surrogato di umori e invenzioni, ogni “verso” delle sue poesie fatte di cuoricini è una sorpresa per esuberanza lirica e per pregnanza semantica.
Come tutti gli animi che sono in costante presa diretta con le risonanze ancestrali, Celiberti appartiene a quel versante della coalizione a ripetere che ha i suoi campioni in Mondrian, Morandi, Giacometti, Capogrossi, Albers e Warhol. Quel versante, cioè, che scaturisce dal più profondo meccanismo del fare arte. L’arte è sempre e comunque una pesca nel serbatoio più profondo dell’essere. Pesca che, per riuscire, deve essere libera da qualsiasi filtro condizionante che non sia quello della metamorfosi in linguaggio. In fondo l’omogenesi dell’arte è tutta qui: saper fare abboccare all’amo dell’estro personale i pesci del mare magnum dell’inconscio, al fine di riportarli a galla e “imbalsamarli” definitivamente e pertinentemente nell’ambito dello specifico linguistico adottato e per cui si è dotati. È chiaro a chi non è dotato di buone “mani” linguistiche i pesci scivolano via, ogni qualvolta egli tenti di afferarli per staccarli dall’amo.
Per rimanere nella metafora, Celiberti è dotato di buone “mani”, tanto che la sua straordinaria irrequietezza spirituale e intuitiva sa agganciarsi ad una impositiva manualità, cosa che gli permette di fare scultura, pittura, grafica, assemblaggi, trasformazioni di libri, con la stessa sicurezza e naturalezza dell’uomo, appunto, che è a un tempo faber e continuamente in presa diretta con i dettati del “sapere” ancestrale. Da qui deriva la sua semplicità e la sua disponibilità umana da vero santone dell’arte, aspetti che lo fanno considerare sin dal primo incontro un vecchio amico ritrovato, dopo una lontananza che non ha diminuito la corrispondenza dei reciproci intendimenti.
Ed è ciò che è accaduto a me, quando nel giugno scorso, dopo i deludenti giorni della vernice della Biennale, da Venezia andai a Udine a incontrarlo.
Non fu affatto l’incontro tra il critico e il pittore. Fu una vera e propria rimpatriata ( e chissà che il vecchio mio desiderio di conoscere Celiberti quando era a Roma, non si fosse telepaticamente rinnovellato in lui, che infatti mi accolse come se già vent’anni prima ci fossimo davvero conosciuti e frequentati: forse per questo aveva molto insistito con Gianni Ambrogio affinchè, nonostante i miei gravosi impegni, mi convincesse ad andare a Udine).
Mai mi è capitato di instaurare sin dal primo istante un dialogo senza reticenze con una persona. Ciascuno di noi due parlava come se conoscesse quello che l’altro pensava.
Naturalmente nell’esplorazione della casa-studio, dove erano contenute sculture e accatastati centinaia di piccoli dipinti di stesso formato in attesa di essere incorniciati, io andavo carpendo cogli occhi quanto più potevo della sua opera e del suo metodo di lavoro, scoprendo la mobilità espressiva della sua arte. Qua mi attraeva una delicata stesura cilestrina, là mi si rivelava una impositiva lievitazione della pasta pittorica che nel suo calcinato materismo covava un cuore graffito come impresso da un sigillo. Altrove erano le sculture ad attirare la mia attenzione, opere plastiche in cui il sentimento della terra, espresso nelle terrecotte, si riverberava sui legni e ferri degli assemblaggi di robusta ottica primigenia, che tuttavia non sopraffaceva mai l’afflato poetico. E ad Ambrogio, che aveva dichiarato di preferire il Celiberti pittore al Celiberti scultore, rispondevo che c’era una grande unitarietà nei due specifici espressivi, e non solo per il gusto di dar colore alle sculture e di converso di far crescere plasticamente le superfici dei quadri, in un interscambio vivido e vivace il cui esempio più illuminante mi era parso individuare in una scultura-albero del salone di casa. E per corroborare quanto dicevo, condussi Ambrogio davanti a quell’esempio, mostrandogli come le concrezioni oggettuali che pendevano dai rami fossero strettamente imparentate con i segni scavati sul “muro” dei quadri. Celiberti, poi, ci conduceva nel piano interrato stracolmo di antiche impolverate sue sculture. Apriva alcuni cassetti contenenti molti fogli di grafica. Ed ecco che ritrovavo il Celiberti del periodo romano e potevo cogliere le sotterranee colleganze di talune immagini, fissate su alcuni di quei fogli, con le farfalle e i cuoricini dipinti dopo il viaggio a Terezin.
Quando, poi, l’artista ci condusse in un grande magazzino dove erano conservate a taglio tele su tele, che alcuni suoi collaboratori estraevano, allora io ebbi la precisa sensazione di trovarmi di fronte a una produzione titanica, mai vista prima ( e sì che di studi di artisti nei miei oltre trent’anni di professione di critico ne ho visitati!)
Lo comunicavo a Celiberti, senza tralasciare di notare che nella variegata orchestrazione della sua pittura, non s’avvertivano cedimenti. E se qui era un accenno di ocra a dar sostanza di atmosfera ad un quadro, là era un raggrumarsi della materia, su cui i segni dell’alfabeto pittorico dell’artista si amalgamavano come fossili del sentimento, mentre in altri quadri una improvvisa ombra nera urlava la tragicità del momento ricordato e rielaborato dalla macina della personale creatività celibertiana. I bianchi, poi, ora calcinati, ora come ombrati appena dal fumo di un invisibile fuoco, cantavano spazialmente in perfetta simbiosi con i rossi, talvolta labili come lo sbaffo di un rossetto, ma che nonostante tutto si facevano sangue, specialmente quando disegnavano cuori, quei cuori che l’artista aveva sentito palpitare all’unisono col proprio sui muri del carcere di Terezin, e che ormai sono divenuti i tantissimi cuori che da decenni fanno palpitare la pittura di Celiberti.
Perché i cuori che Celiberti da trent’anni va orchestrando sulle tavole sinottiche della sua memoria di fratello maggiore dei bimbi ebrei di Terezin non sono inerti, non sono spenti, ma pulsano e continuano a pulsare di speranza, di solidarietà umana, di calore, di colore.
Infatti le sequenze dei cuoricini si fanno versi ideografici di piccole odi a rime baciate, che suonano come inni alla vita. È così che i cuoricini diventano le note musicali di un personale, delicato e accorato, è il caso di dire, canto all’esistenza. Come note musicali di tale canto, essi si accampano sulla tela- spartito, rendendo i singoli dipinti pagine di una sinfonia dei sentimenti e degli affetti.[..]
In questi teleri l’artista udinese ribadiva tutto il suo amore per l’affresco, ed al punto da farli diventare veri e propri muri per le variate ed infinite accidentalità dell’intonaco. Non c’è che dire: Celiberti sa dipingere in grande e in piccolo, creando con le sue X, i suoi numeri, i suoi cuoricini, i suoi graffi a reticolo e no delle suggestive e sempre nuove pareti pittografiche. Come è per i temi musicali che ritornano colle debite variazioni, così i segni e le ideografie nella pittura di Celiberti fungono da temi su cui attuare le variazioni ispirate dall’empito ideativo e creativo del momento.
Celiberti sa trovarsi a suo agio sia nel macrocosmo che nel microcosmo della pittura. Cioè sa ben sfruttare i piccoli e medi formati ed altrettanto sa dominare egregiamente gli spazi del grande formato. Più mi venivano mostrati teleri nuovi e più mi convincevo di questa sua versatilità.
Di tutti i teleri conservati in questo enorme magazzino ho potuto vedere solo una minima parte, mostratami a campionatura dall’artista stesso. Per guardarli tutti sarebbero occorsi almeno due-tre giorni. Comunque pensavo che quanto visto fosse stato sufficiente a farmi comprendere appieno il mondo pittorico di Celiberti. E invece non era così. Mancava ancora qualcosa: l’individuazione del seme formativo della sua sensibilità. Ciò che avrei potuto fare di lì a poco. Infatti, saputo che non ero mai stato a Cividale, luogo che avevo imparato ad amare sui libri d’arte medievale, Celiberti organizzava all’istante una visita alla splendida cittadina friulana, dove peraltro ragazzo aveva studiato.
È qui che al di là delle emozioni dello storico dell’arte sempre vivo in me, ho potuto cogliere quel seme che aveva fertilizzato la sua sensibilità. Sugli intonaci anneriti di un sottopassaggio e sui muri delle strade che conducevano al tempietto longobardo ho ritrovato l’abbecedario della pittura celibertiana: la stessa materia scrostata, gli stessi ocra e bruni, gli stessi neri spenti e vivi, nonché le stesse vibrazioni delle superfici. Naturalmente, tutti questi elementi, introiettati dal giovanissimo Celiberti, dopo lunga elaborazione del suo intimo, erano tornati a galla nella stagione della maturità artistica. Credo sia impossibile comprendere a pieno e in profondità l’arte di Celiberti senza tener conto di queste introiezioni ( e di altre ancora), attuate quando egli studiava a Cividale e andava a bagnarsi nel Natisone proprio là dove il corso d’acqua si allarga placido sotto i salici, ai piedi della suggestiva cascata. L’artista mi indicava il luogo della stradina che conduce al Tempietto longobardo e vi si affaccia dal lato opposto.
Ed ecco che negli stucchi delle figure ai lati della finestra della parete di fondo del Tempietto ritrovavo la matrice di certi bianchi della pittura celibertiana. Mi parve anche che nelle pieghe delle vesti di quei personaggi s’annidasse lo stimolo all’incisione per scavo della materia dal nostro tanto amata. Ma una volta dentro al Duomo, di fronte ai plutei e soprattutto alle figurazioni decorative del tiburio del patriarca Calisto, riconoscevo il vero modello dell’arte del graffire di Celiberti. Un graffire che è sostanzialmente pittorico e lontano dalla scrittura. Mi si faceva chiaro, allora, perché l’amico ritrovato amasse intervenire con la pittura sui libri stampati, per tramutarli in veri e propri libri d’artista. Anche in questo caso si tratta di un operazione da pittore, senza alcuna ombra di neodadaismo o concettualismo, com’è, per esempio, nelle cancellazioni della Enciclopedia Treccani, attuate da Emilio Isgrò sull’esempio storico delle prime cancellazioni di Man Ray. Anche se Celiberti lascia scoperte qua e là parole o frasi dello stampato, in ciò non c’è nessun aggancio al gioco della sorpresa e del nonsense, determinato dal caso. Le parole o le frasi a stampa lasciate a vista dall’artista udinese hanno sempre un valore ed un peso pittorici per il nero delle lettere e per la lunghezza del brandello di testo. Sono, cioè, nient’altro che i corrispettivi di certi interventi segnici (numeri, lettere, linee) che egli fa sugli intonaci dei suoi quadri piccoli e grandi. Ciò che muta è solo il procedimento, che nel caso dei libri (inversamente a quanto avviene nella pittura, dove i segni sono scavati o tracciati a posteriori sulle materie pittoriche) parte del segno tipografico e sulla pagina aggiunge pittura al fine di rendere unicum ciò che la serialità della stampa ha dato come copia tra le tante identiche. Celiberti, da artista della coazione a ripetere, non ama l’identicità. Solo il nucleo del discorso deve interessare la ripetizione, ma nell’atto ripetitivo ogni singolo prodotto deve avere una sua identità differente e differenziata. L’identicità è la morte, l’identità differente e differenziata è la vita. Non è così che funziona la natura nel mondo vegetale e animale. Non è così che l’umanità si differenzia fisiognomicamente, fisicamente e caratterialmente nell’identità di base.
Quando eravamo nella sua casa-studio, Celiberti aveva tenuto a mostrarmi una mia pubblicazione da lui trasformata con i suoi interventi di pittura. Era quella che conteneva un mio ampio saggio sulla pittura di Gianni Ambrogio. Ora, se fossimo ancora soggetti al pensiero magico, ci sarebbe da credere che l’avermi voluto con insistenza a Udine e per di più per il tramite proprio di Ambrogio, sia stata una conseguenza di questo gesto. Come se, dopo essersi impossessato del mio pensiero, Celiberti avesse avvertito l’esigenza irrinunciabile che, per completare il rituale, doveva evocare presso di sé la mia presenza fisica.
Celiberti, l’ho accennato, è un santone della pittura (e il suo aspetto lo conferma). È un santone che trasforma il segno in icona. Chissà, forse è anche uno sciamano. Ed è per questo che nella sua pittura non c’è mai racconto, ma solo e sempre evocazione. Evocazione attuata con segni magici e rituali, sempre gli stessi, altrimenti il sortilegio non riesce. Sortilegio attuato con un personale alfabeto segnico che dà vita ad un diario in cui vengono restituite le minime inflessioni di un vissuto, più interiore che esteriore, in cui ieri, oggi e domani si amalgamano, mischiando memoria con speranza e aspirazione all’amore totale, che è, in definitiva, il suo sogno individuale.
Artista di grande statura, purtroppo Celiberti non gode di quella notorietà che meriterebbe. In questi tempi di spettacolarizzazione della cultura e dell’arte per farsi conoscere ai più sono necessari rapporti con i politici, presenzialismo sfacciato nei salotti privati e televisivi, compromessi col mercato e sostegno prezzolato di certi personaggi della critica ufficiale che, ahimè, non sono sempre i più validi. Tutte doti (si fa per dire) che Celiberti non possiede e che, qualora possedesse, richiederebbero per essere esplicate sperpero di tempo, di quel tempo che hanno in abbondanza quei pittori (quanti ne conosciamo!) che dipingono poco, ma molto si muovono mondanamente, ottenendo, sì, buoni risultati di notorietà, mai purtroppo eguagliati dai risultati della loro produzione. Celiberti, da santone della pittura, ama lavorare seriamente ed indefessamente ogni giorno, e certo paga sul piano della popolarità questo suo modo di essere. Ma, a differenza della pittura, votata per ovvie ragioni a scomparire, dei tanti troppi che imperversano nelle mostre ufficiali, nelle televisioni e sui rotocalchi, la sua è destinata a rimanere.

Giorgio Di Genova

(in Celiberti. Scritture dell’anima, catalogo della mostra, Villa Serena, Ponzano Veneto, Edizioni Ghelfi, 1995)

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